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Valenze sociali LEA a carico Servizio Sanitario

Per “Prospettive assistenziali” 195/2016
1 PERCHÉ LE VALENZE SOCIALI DEI LIVELLI ESSENZIALI DOVREBBERO ESSERE ASSUNTE
DIRETTAMENTE DAL SERVIZIO SANITARIO
MAURO PERINO
Premessa
Le prestazioni socio-sanitarie sono state definite dal decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 29 novembre 2001, il cosiddetto “decreto Sirchia” 1 al quale è stata data forza di legge con l’approvazione dell’articolo 54 della finanziaria 2003. Si tratta di un provvedimento normativo importante che – mentre conferma il trasferimento dei malati cronici non autosufficienti o con gravi disabilità e limitata autonomia nella cosiddetta “area dell’integrazione socio-sanitaria”2– individua le prestazioni domiciliari, semiresidenziali e residenziali ad essa riconducibili che devono rientrare tra i Lea, Livelli essenziali che il Servizio sanitario nazionale è tenuto ad assicurare.
Prestazioni nelle quali – come afferma con apprezzabile onestà intellettuale il testo di legge – «la
componente sanitaria e quella sociale non risultano operativamente distinguibili e per le quali si è convenuta una percentuale di costo non attribuibile alle risorse finanziarie destinate al Servizio sanitario nazionale. Inparticolare, per ciascun livello sono individuate le prestazioni a favore di minori, donne, famiglia, anziani, disabili, pazienti psichiatrici, persone con dipendenza da alcool, droghe e farmaci, malati terminali, persone con patologie da HIV».
Che la titolarità degli interventi stabiliti dal decreto sia sanitaria è bene ribadirlo in ogni occasione possibile,
visto che ancora oggi, a 15 anni dall’approvazione del provvedimento, permangono degli inspiegabili dubbi
sul fatto che il socio-sanitario faccia parte del servizio sanitario. Ma ciò avviene per una semplice ragione:
perché il settore socio-sanitario è stato effettivamente “costruito a tavolino” per spostare alcune tipologie di utenza con gravi patologie dal settore sanitario ad una sorta di zona grigia, caratterizzata dal fatto che una quota degli oneri economici necessari all'assistenza sono posti a diretto carico del cittadino assistito. Queste prestazioni, che come ho detto rientrano a norma di legge tra i Livelli essenziali che il Servizio sanitario è
tenuto ad assicurare, devono invece essere fornite con i criteri e le modalità operative proprie di tale Servizio,
anche se – come del resto già avviene con i ticket sanitari – è previsto che un onere contributivo debba
gravare sull’interessato.
1 Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 29 novembre 2001 “Definizione dei livelli essenziali di assistenza”. Il
provvedimento riprende integralmente, citandolo puntualmente tra le fonti normative di riferimento, il decreto del Presidente del
Consiglio dei Ministri 14 febbraio 2001 “Atto di indirizzo e coordinamento in materia di prestazioni socio-sanitarie” conosciuto come
“Decreto Veronesi”.
2La traduzione, in termini normativi, del concetto di integrazione socio-sanitaria trae chiaramente origine dalla esigenza di contenere
la spesa sanitaria. Con la legge finanziaria del 1984 (Legge 730/1983, articolo 30) viene per la prima volta coniata la definizione di
«attività di rilievo sanitario connesse con quelle assistenziali» e si demanda ad un apposito decreto il compito di individuarle
nell’ambito dell’allora nascente sistema dei servizi socio-assistenziali. A “definire” la nuova tipologia di attività interviene, nel 1985, il
decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri conosciuto come “decreto Craxi” che, all’articolo 1, recita: «Le attività di rilievo
sanitario connesse con quelle assistenziali di cui all’articolo 30 della legge 27 dicembre 1983, n.730 sono le attività che richiedono
personale e tipologie di intervento propri dei servizi socio-assistenziali, purché siano dirette immediatamente e in via prevalente alla
tutela della salute del cittadino e si estrinsechino in interventi a sostegno dell’attività sanitaria di prevenzione, cura e/o riabilitazione
fisica e psichica del medesimo, in assenza dei quali l’attività sanitaria non può svolgersi o produrre effetti». Per questa tipologia di
attività le Regioni (destinatarie del decreto amministrativo) vengono autorizzate a riconoscere una compartecipazione sanitaria alla
spesa mentre «le attività direttamente ed esclusivamente socio - assistenziali, comunque estrinsecantesi, anche se indirettamente
finalizzate alla tutela della salute del cittadino» devono gravare esclusivamente sui bilanci dei Comuni. L’obiettivo è, chiaramente, di
ricondurre al nuovo regime di finanziamento (compartecipato) le prestazioni sino ad allora attribuite (o comunque attribuibili) per
intero al Fondo sanitario realizzando, in tal modo, un risparmio di spesa a scapito degli utenti e/o dei Comuni. Sedici anni dopo con il
decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 14 febbraio 2001 – che radicalizza la logica di risparmio della spesa sanitaria
avviata con il “decreto Craxi” – oltre a ridefinire i confini delle prestazioni socio-sanitarie e ad introdurre nuovi criteri di ripartizione
della spesa tra Asl e Comuni, si “transitano” le competenze sulle tipologie di cittadini “risparmiate” dal decreto del 1985, dal comparto
sanitario a quello socio-sanitario (con relativo accollo degli oneri di intervento riferiti alle attività “non strettamente sanitarie” agli
assistiti e/o ai Comuni). All’utenza già individuata dalle Regioni in applicazione del precedente atto di indirizzo – rappresentata
dall’area materno-infantile, dalle persone con handicap, dagli anziani cronici non autosufficienti – si aggiungono: le persone non
autosufficienti con patologie cronico degenerative, i soggetti dipendenti da alcool e da droga; gli affetti da patologie psichiatriche e gli
affetti da Hiv. A questo decreto fa seguito, nel novembre dello stesso anno, il “decreto Sirchia” in argomento.
2
La componente sanitaria e sociale delle prestazioni Lea
L’integrazione socio-sanitaria è un nobile principio che viene però costantemente strumentalizzato. È un
concetto cardine del comparto sanitario e di quello sociale (è infatti ampiamente dimostrato che la
condizione di salute influenza la condizione sociale delle persone e che, viceversa, la condizione sociale
delle persone influenza gli aspetti sanitari) che viene parecchio enfatizzato nell'ambito dei due comparti ma che può essere egualmente applicato – ad esempio – al grado di istruzione, al livello culturale, alla
collocazione lavorativa ed a quella abitativa.
Eppure è solamente nell'ambito sanitario che, sulla base di tale concezione, si è giustificata la creazione di una “area socio-sanitaria” (come settore “a parte” rispetto a quello sanitario). Per analogia dovremmo
prevedere infatti altrettante aree per i servizi preposti all’istruzione, al lavoro, alla casa, alla promozione
culturale e dello sport. Dovremmo cioè teorizzare una collocazione “differenziale” delle persone nei servizi
sulla base di una lettura distorta e strumentale dei loro bisogni. Dalla constatazione che le patologie cronicostabilizzate e cronico-degenerative esprimono la necessità di interventi di assistenza tanto sociale che sanitaria si dovrebbe, al contrario, trarre la corretta conclusione che il sistema sanitario deve farsi carico degli uni e degli altri, proprio perché la persona è unica.
Inoltre oggi le definizioni di malattia e di salute sono cambiate rispetto al passato. Come osserva infatti il
Professor Mario Bo benessere fisico,psichico e sociale, nella sua onnicomprensività portava inevitabilmente ad una ingiusta commistione di problematiche sociali e sanitarie, oltre che ad un consistente rischio di ipermedicalizzazione conseguente a dispetto di danni e compromissioni sociali, fisici ed emotivi»
3.Ne consegue quindi che se, in campo sanitario, il concetto di autosufficienza è equiparato a quello di salute, la non autosufficienza determinata dalla presenza di una o più patologie e dalla necessità della persona malata di cure sanitarie e socio-sanitarie non può che essere equiparata alla perdita di salute che, come tale,va affrontata all’interno della rete dei servizi del sistema sanitario, nell’ambito del percorso socio-sanitario delle prestazioni Lea, sia nella fase cronica che nel decorso segnato da complicanze e riacutizzazioni.
Abbandonando due comportamenti estremi: da un lato l’eccessiva medicalizzazione nella fase acuta e,
dall’altra, la impropria riconduzione dei bisogni di cura dei malati non autosufficienti ad un problema di mera assistenza o badanza da delegare alla famiglia e/o al comparto dei servizi socio-assistenziali
.
Le prestazioni sociali richiamate nei Lea vanno dunque considerate un tutt’uno con quelle sanitarie e sociosanitarie:
il decreto afferma infatti che «non risultano operativamente distinguibili» tra loro e che competono
al sistema sanitario. Perciò devono essere garantite a tutti i soggetti in esso indicati ed in particolare ai
malati cronici non autosufficienti, compresi gli anziani e le persone con demenza senile, ed alle persone in
condizioni di grave disabilità in quanto il diritto alla salute è costituzionalmente tutelato per ogni individuo e per la collettività nel suo insieme.
Per raggiungere questo obiettivo occorre, a mio avviso, sconfiggere la concezione ancora dominante
secondo la quale è prerogativa del Servizio sanitario assicurare la cura della malattia nelle sue fasi acute,
mentre la cronicità, in tutte le sue manifestazioni, viene espulsa dalla pienezza del diritto alla salute. Ed è inoltre profondamente sbagliato che vengano considerate di competenza sanitaria solamente le prestazioni
afferenti alle tradizionali professioni del comparto e non tutto l’insieme degli interventi, compresi quelli di
assistenza tutelare alla persona, indispensabili per una efficace cura della persona malata o in condizione di
grave disabilità.
Al settore della sanità va richiesto – in sintesi – di assumere direttamente tutte le valenze umane, relazionali
e sociali nell’ambito delle attività di prevenzione, cura e riabilitazione che il sistema sanitario è chiamato a
svolgere a beneficio di tutta la popolazione assistita (come avviene, sin dalla loro costituzione, nei servizi di
salute mentale ed in quelli rivolti alle persone affette da dipendenze patologiche), «senza distinzione di
condizioni individuali o sociali e secondo modalità che assicurino l’eguaglianza dei cittadini nei confronti de l servizio» 4.

3Mario Bo, “La tutela della salute dei malati non autosufficienti acuti e cronici”, Prospettive assistenziali, n.182, 2013.
4 Articolo 1 della legge 833/1978

L’anziano malato cronico non autosufficiente è – ad esempio – sempre un malato a prescindere dal luogo di cura in cui si trova: a casa, in ospedale o in Rsa. Se per curarlo e assisterlo presso il suo domicilio sono
necessarie competenze proprie dell’assistente sociale, ebbene, questa professionalità deve essere reperibile
nell’ambito dei servizi sanitari di distretto, tanto quanto all’interno del servizio ospedaliero. Ed anche le
funzioni oggi svolte dagli assistenti sociali appartenenti all’organico degli Enti gestori dei servizi socioassistenziali
– utilizzati nell’ambito delle Uvg, Unità di valutazione geriatriche per definire e pianificare gli
interventi assistenziali – dovrebbero essere assunte direttamente dalle Aziende sanitarie nelle cui dotazioni
organiche queste figure professionali sono regolarmente previste e vengono inquadrate nel servizio sociale
aziendale .
Questo semplice provvedimento permetterebbe di semplificare le procedure e, soprattutto, di avere
personale che dipendendo da una stessa amministrazione non rischia, come avviene oggi, di venire
strumentalizzato nel permanente conflitto tra gli enti sulla ripartizione degli oneri delle prestazioni. In sintesi il
settore sanitario (servizi delle cure domiciliari, centri diurni ed ospedale) e quello socio-sanitario (Rsa)
dovrebbero assumere in proprio anche tutti i complementari aspetti sociali in quanto parte fondante dei
progetti di cura. E non fa un buon servizio al cittadino chi sostiene che è solo il comparto socio-assistenziale
ad avere in sé connaturata la missione di umanizzare le altrui prestazioni e che, pertanto, solo con la
presenza di operatori degli Enti gestori nelle Uvg si possono tutelare per davvero i deboli e i sofferenti.
Ogni figura professionale (medico, infermiere, assistente sociale, educatore, operatore socio-sanitario, ecc.)
dovrebbe agire con le stesse modalità eticamente e professionalmente valide a prescindere dal comparto nel
quale lavora. L’umanizzazione delle prestazioni è una componente imprescindibile in ogni settore
istituzionalmente preposto alla tutela dei diritti sociali fissati dalla nostra Costituzione: dunque in sanità, ma
anche negli ambiti di scuola, lavoro, cultura, e quant’altro.
Accade invece che si confonda la necessità di una integrazione delle competenze professionali e delle
relative prestazioni (sanitarie e sociali, quando necessarie) con la delega – o “scaricamento” – al settore
socio-assistenziale (e quindi ai Comuni) di prestazioni socio-sanitarie (e dei relativi oneri), quando queste
non sono strettamente mediche o infermieristiche, benché rientranti nei Lea e imprescindibili per la tutela
della salute del malato.
La complessità dei problemi organizzativi derivanti dalla moltiplicazione degli interventi collocati nell’area
dell’integrazione socio-sanitaria – accentuata dal cambiamento degli assetti istituzionali tuttora in corso –
produce inoltre discontinuità e sovrapposizioni tra le diverse unità produttive, le diverse tipologie di intervento
e le differenti professionalità, a loro volta caratterizzate da molteplici approcci tecnici. La definizione di un
piano di lavoro integrato e personalizzato, dalla valutazione del bisogno alla verifica dei risultati ottenuti
mediante l’erogazione delle prestazioni e dei servizi, presuppongono invece un’organizzazione delle risorse
messe in campo atta a garantire una stabile integrazione tra le unità produttive chiamate ad effettuare gli
interventi.
Il criterio essenziale che deve pertanto ispirare il legislatore nella attribuzione delle competenze istituzionali e
nella definizione e dei modelli organizzativi è l’efficienza e l'efficacia degli interventi da valutarsi sulla base
della capacità delle diverse professionalità e dei diversi servizi chiamati in causa, di mantenere come
riferimento l’unità della persona. Il compito di assicurare il coordinamento e l’integrazione – che si pone in
funzione della necessità di coniugare le esigenze di specializzazione e la specificità delle prestazioni con
l’esigenza di far convergere gli interventi prestati all’utente – spetta infatti alla struttura operativa e non
all'assistito che, per parte sua, quanto più è in condizioni di difficoltà, tanto meno è in grado di gestire i
rapporti con il sistema dei servizi e di coordinare le prestazioni che gli vengono erogate in modo parcellizzato
Osservazioni conclusive
Il quadro normativo nazionale attuale interpreta l’integrazione come un problema di coordinamento tra il
sistema sanitario e quello sociale, intesi come due entità ben distinte, facenti capo a strutture organizzative
differenti. I meccanismi dell’integrazione sono basati, in questo modello, sulle unità organizzative – alle quali
viene assegnato l'obiettivo dell'integrazione da perseguire assicurando una costante ed efficace
comunicazione tra gli operatori dei due comparti – e sulla definizione concordata e formalizzata tra la
istituzioni (Aziende sanitarie e Comuni, singoli o associati) con appositi accordi di programma e protocolli
operativi codificati coerenti allo scopo.
Purtroppo però il modello di integrazione per “concertazione e accordo” – ampiamente sperimentato da
decenni in molte aree del Paese – delegando di fatto, alle singole professionalità dei differenti comparti,
l’onere di coordinarsi sul piano operativo, non offre le necessarie garanzie rispetto alla esigenza di declinare percorsi assistenziali che – senza soluzioni di continuità – prevedano l’accoglienza unitaria dell’utente nel
momento dell’accesso, la valutazione del bisogno che questi esprime, la definizione di un progetto
personalizzato e condiviso e, infine, l’erogazione ed il costante monitoraggio degli interventi. Interventi che,
come il personale che li eroga, devono attualmente far capo, dal punto di vista finanziario, a due diversi
soggetti istituzionali permanentemente in conflitto proprio per quanto attiene alle risorse economiche da
investire.
L'ormai doverosa assunzione dell'obiettivo di una efficace integrazione delle prestazioni (sia per quanto
attiene alle diverse valenze specialistiche sanitarie che per quelle sociali) presuppone che esse siano
affidate ad un sistema di servizi unitario che non può che essere individuato nel sistema sanitario. La
collocazione degli interventi afferenti alla cosiddetta area dell'integrazione socio-sanitaria in capo alle
Aziende sanitarie consentirebbe infatti l’aggregazione delle prestazioni in capo ad unità polivalenti sia per
quanto attiene al sociale che al sanitario. Chi assume la direzione dell’unità operativa avrebbe la piena
responsabilità della gestione di tutto personale assegnato che – superato ogni motivo di conflitto generato
dall'appartenenza ad enti diversi – potrebbe molto più facilmente venire orientato ad organizzare gli
interventi in modo da garantire la centralità dell'assistito.
Occorre in sostanza che siano chiari i diritti delle persone, definiti i soggetti istituzionali deputati a garantirli e
certe le risorse. Per arrivare a ciò è indispensabile indicare un solo soggetto istituzionale ed organizzativo
(l’Asl), e non due (Asl e Comuni), che sia tenuto ad assicurare le prestazioni, previste per diritto, dalla fase di
valutazione a quella di definizione, attuazione e verifica del progetto di cura. Allo stesso modo occorre che
vi sia un unico organismo a governare il sistema onde evitare che si verifichi quello che oggi accade:
l’impotenza dei cittadini di fronte al palleggiamento delle responsabilità tra le istituzioni5 ed i servizi che essegovernano (basti dire che attualmente, in Piemonte, sono previsti ben due presidenti dell’Unità valutativa multidimensionale disabili: in perenne conflitto tra loro per tutelare gli interessi delle rispettive istituzioni ed organizzazioni).
A questo proposito giova ricordare che i servizi socio-assistenziali dei Comuni singoli o associati sono
chiamati ad operare per assicurare ad «ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere» il «diritto al mantenimento e all’assistenza sociale». Un diritto, sancito dall’articolo 38 della
Costituzione, che ha caratteristiche molto diverse dal complesso di quelli afferenti alla “sicurezza sociale”.
A differenza del diritto alla salute che, in base al dettato dell’articolo 32 della Costituzione, deve essere
obbligatoriamente rivolto a tutti gli individui malati (compresi quindi tutti gli anziani cronici riconosciuti non autosufficienti e tutti i soggetti con handicap grave, anche quelli provvisti dei mezzi per vivere) il diritto all’assistenza ha (e deve avere), invece, un carattere selettivo e riguarda, nel caso specifico, solamente quei cittadini la cui situazione economica non consente il pagamento della quota (cosiddetta sociale) prevista a loro carico in base ai Lea. L’assistenza sociale è dunque quell'indispensabile “di più” che serve, quando tutto il resto funziona, per chi sta comunque peggio.
Ciò rende necessario che, sul piano normativo, sia sempre definito in modo puntuale il rapporto che deve
intercorrere tra diritti esigibili solamente da coloro che – anche volendo – non possono utilmente provvedere ai propri bisogni vitali ed i diritti che vanno invece assicurati alla cittadinanza in generale. Il diritto alle cure socio-sanitarie – vale la pena di ribadirlo con forza – appartiene a questa seconda fattispecie e non certo alla prima.
In conclusione auspico l’adozione di norme che prevedano in modo inequivocabile che i servizi cosiddetti
socio-sanitari e quelli sanitari (dei quali i primi sono parte integrante e sostanziale) devono essere
organicamente unificati nell'ambito del sistema sanitario per quanto attiene alla titolarità istituzionale, al
finanziamento ed alla gestione ed organizzazione dei servizi, prescindendo dal fatto che agli assistiti venga richiesto o meno di contribuire al costo delle prestazioni, dalla modalità di contribuzione prevista (ticket o pagamento pro quota).
5
La creazione di un doppio riferimento sul piano istituzionale – favorita da un impianto normativo che prevede “prestazioni sanitarie a rilievo sociale”, “prestazioni sociali a rilievo sanitario”, “prestazioni socio-sanitarie ad elevata integrazione sanitaria”, a loro volta
articolate in fasi curative “intensive”, “estensive” e “lungo assistenziali” – costituisce, per i cittadini colpiti da malattie invalidanti, uno sbarramento spesso insuperabile per l’acquisizione della conoscenza di quali sono i diritti che possono essere rivendicati per accedere, senza ostacoli, ai servizi ed alle prestazioni.
Per “Prospettive assistenziali” 195/2016 5
(fonte: http://www.cisap.to.it/pdf/Prospettive_assistenziali_n.195_2016.pdf)

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Localizzazione geografica: Italia   

Persone: Famiglia   

Argomenti: Normativa   


Perino Mauro - Prospettive Assistenziali

Scheda creata da SocialwikiStaff il 04/04/2017
Ultimo aggiornamento effettuato da SocialwikiStaff il 04/04/2017

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